«L’Orologio» di Carlo Levi (1951)

Recensione a Carlo Levi, L’Orologio (Torino, Einaudi, 1950), «Letteratura e arte contemporanea», a. II, n. 7-8, Roma, gennaio-aprile 1951, pp. 116-119; poi in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

«L’Orologio» di Carlo Levi

L’accoglienza che la critica ha fatto all’ultimo libro di Carlo Levi non può essere discussa nel suo fondamentale atteggiamento perplesso o negativo, e neppure chi si trovi ad essere libero da possibili sdegni ideologici e addirittura in simpatia, almeno in parte, con le premesse libertarie e socialiste della crisi descritta da Levi (crisi certo nonché risolta, neppure tentata di superare con una speranza di effettiva «libertà») può far valere l’ammirazione per uno scrittore cosí dotato e per una esperienza cosí ricca ed importante in cambio di una intera accettazione del valore dell’Orologio. Né certo si può solo tentare la scappatoia delle «belle pagine» sempre assai sospetta nel giudizio di un libro, e particolarmente nei confronti di un’opera impegnativa nel suo impianto (anche se con qualche tentazione di «varietà» e di divertimento periferico leggermente snobistico e accademico insieme), nella sua ambizione di un disegno vasto e complesso, di una interpretazione personale di un’epoca realizzata in un recupero effettivo ed artistico di un tempo perduto fra cronaca vicina e definizione di affresco.

E poiché il precedente libro di Levi Cristo s’è fermato ad Eboli (la Paura della libertà, scritto già prima nel ’40, serve a spiegare le idee di Levi, ma non conta artisticamente), nella sua fortuna anche eccessiva (opera di dopoguerra a cui probabilmente una revisione distaccata accrescerà la vocazione fiabesca e pittorica e diminuirà il coefficiente di testimonianza artistica di un grande problema di civiltà), si era imposto per la sua continuità, per il respiro unitario ed armonico che integrava le figurine piú tenui e l’humour piú risentito in un’unica direzione, per la coerenza fra rappresentazione di una terra e di un tempo (Lucania, fascismo) ed il centro autobiografico del pittore-scrittore, con le sue osservazioni e le sue pitture, la critica non può non vedere L’Orologio in confronto svantaggioso con il libro fortunato, sentendolo insieme come serie di «paralipomeni» di quello e come fallita applicazione della stessa formula unitaria, o infine come tentativo di nuova formula piú vasta e pericolosa. Ed è facile confrontare la continuità di sfondo, la mancanza di tentazioni laterali, in un libro in cui tutti i fermenti dell’intellettuale, del politico (o del sognatore politico), dell’artista erano chiusi in un provvidenziale centro di interesse e di visuale e arricchivano dall’interno il colore espressionistico di quel quadro concluso, in cui la cronaca e la storia piú facilmente coincidevano nelle figure risentite e divertite dei «luigini» e dei paesani, e ironia, sdegno politico e morale funzionavano poeticamente senza separarsi o diluirsi in un elegiaco e dubbio divertimento fra ritratti gustosi e impegno centrale.

E la politica, che lí non aveva nome se non di protesta contro un regime che accentuava il dramma del Meridione italiano ed esacerbava il contrasto fra l’«uomo libero» europeo e il Luigino (e si vede come questi vive storicamente accanto al cafone di Silone o al piccolo borghese di Alvaro in un mondo di relazioni assurde e tradizionali in cui il «sunt lacrymae rerum» funziona persino troppo automaticamente), nel nuovo libro ha preso invece un nome anche troppo preciso e si è fatta cronaca di una vicenda di partito vista ad un ingrandimento che non può rendercela epica e che, d’altra parte, è pur sempre eccessivo per offrire un ordito sicuro alla trama autobiografica che vi si inserisce: la crisi Parri (e l’immagine del «crisantemo» adoperata per l’onestissimo presidente può indicare anche il pericolo di variazione poco convinta fra decorazione, cronaca e storia poetica), specie vista nelle discussioni piú cerebrali che appassionate dei giornalisti del «partito d’azione», non riesce ad essere né il centro del libro né un episodio a sé, anche se attrae tutta una linea che vive fra ritratti gustosi (gustosissimo quello dell’ex-ministro e direttore dell’«Italia libera») e sfocati (e bisognosi comunque della chiave della cronaca), figure a contrasto (Moneta e Casorin) e interminabili dialoghi, che, se rendono al lettore provveduto l’atmosfera cerebrale e raziocinante del tipico milieu azionista, non possono non creare un’impressione di pesantezza senza conclusione (i lunghi dialoghi raziocinanti sono uno dei difetti evidenti di molti scrittori contemporanei e solo il Mann di Zauberberg può permettersi certi lussi, e non senza pericolo), una delusione che contrasta fortemente con lo humour vivo del dialogo mai prolungato del Cristo s’è fermato ad Eboli.

La cronaca ed «elegia» di un’attività di partito su cui si riverbera, anche essa un po’ divagata, la simpatia che ravviva tante figure nel loro ritmo febbrile, nella loro ansia di trovare il punto debole della loro azione fallita, si incontra con una linea di variazione (le chiacchiere inutili del cameriere Giacinto con i suoi ricordi di soldato e infiniti episodi che non riescono a costituirsi necessari e complementari) e con quelle specie di «giunte» quali il viaggio a Napoli con la morte dello zio Luca in una forma di recupero del tempo perduto, notevole, ma slegato da un vero ritmo poetico generale.

Ma bisogna pur chiedersi che significato abbia comunque per Levi la crisi di cui questo libro ci parla, fra una speranza (l’arrivo a Roma a dirigere il giornale) e una chiusura (la caduta del gabinetto C.L.N.), a cui fanno da seguito vicende aggiunte in maniera piú esterna e decorativa.

Ché è pur dal significato piú largo di questa crisi che lo scrittore (non certo semplice saggista postrondista, né solo abilissimo caricaturista) potrà rivedere il tentativo fallito e trovare vantaggio per un impegno piú sicuro, meno divagato e pure ugualmente vasto. La crisi del gabinetto Parri e del «partito d’azione» (a parte il suo preciso valore politico che qui non discuto) è per Levi la vistosa conferma di una crisi piú grave (si legga La paura della Libertà) nei rapporti fra il letterato e la realtà storica, fra l’impossibilità di un ritorno alla concezione artigiana e decadente dell’arte e la difficoltà di legare la propria libertà ad una fede e, nella situazione artistica, ad una necessità espressiva unitaria.

Qui è il punto che il Levi deve chiarire a se stesso con piú forza e con minore concessione al gusto delle variazioni, della trovata cerebrale, del facile distacco dell’uomo d’eccezione, o del pittore che tratta le pagine come un pezzo di quadro. Ben lontano dal riprendere le posizioni di chi vede l’accordo di un artista con la società solo in precisi schemi e in precise direttive di un partito, penso che a Levi occorra rivedere meglio la sua posizione di scrittore nei confronti della società e dentro se stesso fra impegno e distacco.

Probabilmente vedrà che la via di Cristo s’è fermato ad Eboli chiedeva insieme una posizione piú nitida, non perciò piú ideologica, e una libertà e necessità di espressione non minore: meno cronaca e piú storia, meno figure della realtà e piú realtà trasfigurata. Il suo segno sicuro e leggero, cosí concreto e favoloso nel primo libro, non deve perdere le sue caratteristiche migliori, ma al tempo stesso piú chiari devono essere i centri d’interesse del suo narrare, come l’ambizione di un procedimento largo e complesso, non deve lasciarsi andare ad un ritmo vario e svagato o di parentesi saggistiche come nel contrastante disegno de L’Orologio.

Ché, se non è unicamente sulle pagine belle che si può riscattare questo libro, è proprio il bisogno di un impianto solido e sono certe punte estreme di forza espressiva (la bellissima scena del fascista ucciso in piazza Pitti fra precisione, stupore, e senso alto del tempo poetico ove batte davvero un orologio di poesia e non l’orologio della cronaca che nel libro si avverte confuso e monotono) che danno l’impressione di una maturazione dentro la prova complessivamente fallita. Lo stesso inizio in cui l’atmosfera di Roma è creata fastosa e assoluta (il mito di Roma come il mito della Lucania, vivo finché non è disperso nella cronaca meno concreta e poetica), con un concentrato di barocco e di antico nell’aria eccezionale della liberazione, supera la riuscita dei singoli pezzi di bravura (la venditrice di sigarette, il mercatino nero di p. 91 ecc.), come il palazzone barocco con le sue scale gigantesche e la sua piccola cronaca di figure ambigue (ma il «cugino», nel suo rivelarsi di innocuo maniaco, come una figurina di Palazzeschi piú secca e precisa è segno di una abilità di minuta costruzione ben piú che bozzettistica), se pure non riesce nello sparso affresco del libro a diventare tutt’uno con la favolosa Roma dell’inizio (che riappare qua e là in qualche traversata notturna come quella assai bella di p. 243), ha la forza di un mito che poteva concentrare racconto e persone se la «fettuccia monotona» della memoria non avesse avuto in questo libro un divagato abbandono e una concessione alla cronaca raziocinante. La punta di certe figure e di certi paesaggi ha conservato la felicità di sogno del Cristo ed ha acquistato qualcosa di piú maturo e fermo, come la stessa ambizione di un affresco grandioso indica una tensione a posizioni piú larghe e a risultati cui la forza intima non ha corrisposto, ma che lo scrittore dovrà non abbandonare, concentrandosi in una immagine piú intensa della propria vita, addensando le sue qualità con piú forza di artista intorno ad un possesso piú sicuro del proprio senso della vita e della crisi (necessaria, drammatica, ma non fine a se stessa) segnata dal suo interno orologio.

Fu solo un momento di grazia irripetibile Cristo, o Levi dopo questa nuova esperienza può ritornare con forza maggiore a quella sicurezza e compiutezza, a quella fusione del proprio ritratto e di una realtà sentita insieme con impegno storico e con mitico distacco?

Non mancano ne L’Orologio indizi di forza artistica nuova e di nuove esigenze di costruzione, accanto a controindicazioni di cadute che potrebbero persino indurre a rivedere il primo risultato con occhio incredulo, a ricercarvi pieghe nascoste e punti deboli. Naturalmente solo Levi può incoraggiare la nostra fiducia, esclusa la via di un saggismo che potrebbe inutilmente tentarlo, riprendere un piú saldo possesso della «fettuccia» della memoria, rivedere con nuova intensità di animo e di stile vicende e miti legati al proprio ritratto, lasciando da parte non l’essenziale vocazione etico-politica, ma il suo predominio raziocinante o la sua traduzione in divertimento di macchiette abilissime e svagate.